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25/03/2006
La canciòn di Vilanova
Prologo Tramontata è la luna, e le Pleiadi a mezzo della notte… - Isabel, vado un momento sul terrazzo. Quell'eterno giorno di luglio moriva. Il cielo era striato dalle nuvole del tramonto, pennellate rossastre, come arroventate. Usciva qualche peschereccio, e le luci accese non si distaccavano nell'aria ancora chiara. Sulle rocas alcuni uomini sistemavano canne da pesca. In strada giocava un gruppo di bambini. - Julia! Era così assorta che quando Isabel la chiamò non la sentì: non si girò né disse nulla. Isabel la raggiunse e si appoggiò sui gomiti al suo fianco; le mise un braccio sulle spalle. - Come sei silenziosa, ragazza mia. - Sì, non so che mi succede, sono come addormentata. - La vedovella di mio fratello. Julia sorrise. - Domani torna – disse Isabel. - Già, domani… Uno dei pescatori si mise a urlare dalla felicità. Tutti corsero attorno a lui e all'orata che si dibatteva ancora attaccata all'amo. - E' in ferie da venerdì… – proseguì Julia. - Certo, sarebbe potuto partire prima. Julia strinse le spalle. - Non so. Che faccia ciò che vuole. - Avete litigato? - No, non è che abbiamo litigato. E' come sempre. - Allora? - E' sempre un po' così – disse Julia, facendo un gesto di scoraggiamento. – Per telefono, per lettera ci si capisce sempre così male… - Davvero. Le storie con i ragazzi di fuori sono una rottura. Julia si mise a mordersi una pellicina con gli occhi bassi. Cominciarono a caderle lacrime sulla mano. Tramontata è la luna, e le Pleiadi a mezzo della notte. Mi scuote amore, come il vento che dal monte cala sul bosco. - Chiaro... Ci si rompe di aspettare, ragazza mia, e di farsi il sangue cattivo. Con un ragazzo di fuori, tutto quello che non è avvicinarsi in qualche modo… Ma che ti succede, stai piangendo? Aveva abbassato il mento fino ad appoggiarlo al petto e piangeva con gli occhi chiusi. Quando sentì la domanda di Isabel, e la stretta del suo braccio farsi più forte, si coprì il viso con le mani. - E' che se sapessi quanto sono stanca – disse con una voce soffocata – se sapessi… non posso andare avanti così. Subito alzò la testa e si pulì gli occhi bruscamente. - Non dirgli nulla di questo… Se è lo stesso per te. - Ma stai tranquilla. Però dimmi, che ti succede? - Niente. – La voce era tornata più tranquilla – Che ci capiamo male, che mi fa diventare matta con le manie che gli vengono che lo amo poco, e sempre a chiedermi cose impossibili, cose che io non posso fare. Non si sforza di capire… Figurati: per esempio si arrabbia perché non vado a Cremona. Ma come faccio, io non ho un lavoro, non ho un soldo, io non so la lingua Allora di nuovo con la storia che non lo amo. - Ah, questo sempre, questo tutti. Perché credi che sia finito tra me e Jordi? - No, tra noi non credo che finirà. Mi ama così tanto. - Tu, ad ogni modo, non essere stupida, non farti sottomettere. Per lo meno, è quello che ti consiglio. Se fai la molle è peggio. E non me ne frega niente se è mio fratello. - Se potesse venire almeno un po' più spesso… Parlare è un'altra cosa. Ma, ora, non dirgli che ero triste – disse Julia in fretta e a voce bassa – Sono cose che si dicono per dire, che un giorno ti alzi di umore migliore di un altro. - Per favore, ragazza mia, cosa vuoi che gli vada a dire. - Non ti credere che non lo ami per quello che ti ho detto. Non lo cambierei per nessun altro. - Certo. Tramontata è la luna, e le Pleiadi a mezzo della notte. Mi scuote amore, come il vento che dal monte cala sul bosco. Ma a me non ape, non miele, e piango e dormo sola.. Isabel guardò l'orologio. - Ti fermi a mangiare qui? - Dovrei avvertire a casa. - Telefona. - E' che dovrei lavarmi i capelli e farmi la piega. Domani arriva. Si passava le dita tra i capelli. Isabel glieli toccò da dietro. - Vediamo. Posso fartela io. Ti fidi? Sistemò una sedia vicino al lavandino. Julia si sedette rovesciando la testa all'indietro. Isabel usava la doccetta: l'acqua era tiepida, il profumo dello shampoo dolce. Ripensava alle sue ultime parole. La carezza di Isabel ammorbidiva l'anima come il balsamo avrebbe ammorbidito i capelli. Quando si chinò, i suoi seni le sfiorarono la spalla, e sentì l'odore della sua pelle. Si sentiva bene. Sorrise. Allora Isabel la tenne ferma in quella posizione per un attimo, uno solo, afferrandole un polso, e posò le labbra sulle sue per un bacio così semplice che avrebbe potuto essere davvero quello di un'amica. Julia rimase come in attesa, preparata a tutto. Isabel rimase molto calma. Chiuse l'acqua, le tamponò i capelli con un asciugamano. Poi la baciò di nuovo. In principio fu un semplice contatto di labbra, poi quelle labbra si aprirono e si richiusero come avessero voluto divorare quelle Julia. La sua lingua si fece strada e superò di poco la barriera socchiusa dei denti, incontrò quella dell'amica e si ritrasse, per subito riapparire coraggiosa, senza esitazioni. La invitò nella sua bocca, tra saliva e sospiri. La ricacciò indietro, entrò e uscì di nuovo. Si staccò, lasciandola confusa ed eccitata - Aspetta. La prese per mano, e la portò verso la camera da letto. Ma non entrarono: la abbracciò spingendola contro lo stipite della porta. E la baciò di nuovo. Sempre in piedi, le fece appoggiare la schiena al suo petto. Le sollevò la maglietta: Julia non portava reggiseno. L'asciugamano finì per terra, come gli shorts. Le mutandine no: Isabel gliele lasciò addosso. Con una mano prese a toccarla tra le gambe, mentre con l'altra le accarezzava il seno. Julia, senza girarsi, le abbracciò la nuca: la posizione annullava la loro piccola differenza di statura, e Isabel la baciava da dietro, cercando la sua lingua. Nessun ragazzo aveva osato toccarla così, subito dopo il primo bacio. A nessun ragazzo avrebbe permesso di farlo - Non l'avevi mai fatto con una donna, vero? - No. A Julia non dispiacque quella domanda che era una mezza confessione. Da subito aveva deciso di lasciarsi completamente fare. La mano di Isabel era leggerissima. Sentiva le sue dita passare, quasi solo sfiorandolo, sul clitoride, cercare dentro le labbra, in ogni piega della carne. Ogni tanto, con due mani, le faceva scorrere le mutandine avanti e indietro, spingendo in alto il cotone ormai fradicio. Mentre il piacere montava inesorabile, prese a penetrarla spingendo le dita fino alle nocche: le sfilava, e le carezzava l'anello in rilievo, un poco più indietro, e più in alto. Improvvisamente, Julia fu presa il desiderio di sentirle dentro. Spinse un poco verso il basso. Isabel capì: la penetrò prima con un dito, poi con due. Infine insinuò anche l'anulare. - Non ti faccio male? Non rispose. Le afferrò il polso e spinse verso l'alto. Certo che le faceva male… ma era quella voce di dolore in mezzo all'urlo trattenuto dell'orgasmo che la stava facendo smarrire ogni sentimento e ogni sensazione. - Se vuoi… - mormorò – se vuoi... spingi più forte. Isabel si spostò in maniera da averla davanti, un braccio piegato tra le sue cosce, l'altro appoggiato al ventre. Ora il movimento dell'indice sul clitoride si era fatto più forte e più veloce. Dopo aver condotto Julia passo passo in vetta a un dirupo su cui mai avrebbe immaginato di salire la abbandonava in caduta libera. Ogni tanto affondava, con quasi tutta la mano: le punta delle dita si cercavano dentro di lei, premendo contro la sottile membrana che le separava. - Oh spingi più forte – disse, questa volta ad alta voce. L'orgasmo arrivò improvviso. Julia trattenne a stento un grido, sentì le ginocchia cedere. Le dita di Isabel scivolarono fuori: le portò davanti alle loro bocche; le leccarono insieme. Julia si appoggiò di nuovo al muro. Sentiva i muscoli del ventre rilassarsi mentre la lingua di Isabel passava dove il suo piacere era colato in rivoli, lungo le cosce. L'aria era umida, e dalla strada le voci dei bambini giungevano più lontane, ora. Socchiuse gli occhi, li riaprii di nuovo. - Senti – disse Isabel, riprendendo fiato – Telefona… e digli che ti fermi anche a dormire, amore. Amore… solo un'ora, o era stato un secolo?, prima non avrebbe mai immaginato di fare l'amore con Isabel. Adesso non riusciva a immaginare di non poterlo più fare. Qual è la cosa più bella sopra la terra bruna? Io dico ciò che si ama. Volse gli occhi alla finestra, al mare. Tramontata è la luna…
1. Arrivai il sedici di luglio, passata mezzanotte, alla fine di un viaggio interminabile. Il treno ebbe due guasti, il primo di poco conto, il secondo serio, pochi chilometri prima del confine spagnolo, in mezzo a dei campi di granoturco. Durante questa sosta il calore divenne quasi insopportabile ed ebbi tempo di finire tutta la mia acqua. Uscii sul corridoio. Sulla terra si allungava l'ombra di un braccio e di un profilo. Al limite del campo c'era qualche pioppo, e ancora più dietro, forse un paio di chilometri, appena sporgente sui campi, un gruppo di case. - Que calor! Y cuando volvemos a salir? A Perpignan erano saliti un uomo sulla quarantina, già un poco sale e pepe, in evidente stato di sofferenza nel caldo che progressivamente rinforzava, e la figlia, diciotto anni o su di lì, biondina, i capelli lunghi, vestito ampio di cotonina, le unghie dei piedi dipinte di rosso. Aveva approfittato della sosta per tirare fuori specchietto e pettine. Per chi annodi i capelli biondi, in eleganza pura? - No creo tan pronto. La locomotora tiene que haber roto. Ci fu un attimo di silenzio. Vidi gli occhi di lui che correvano da me al mio Corriere della Sera lasciato sul sedile - Lei è spagnolo? - Da parte di madre. Ma vivo in Italia. - Sta andando in vacanza in Spagna? - Oh sì. E poi mia sorella vive lì da tre anni. A Vilanova. C'è mai stato? - Certo – intervenne la ragazza – Noi stiamo andando a Sitges. Colsi in quelle parole come una sorta di vaga promessa. - Beh – dissi io – sono cinque chilometri. - Sei – mi corresse. - E i suoi genitori? – chiese di nuovo lui. Aveva voglia di chiacchierare, forse per sentire meno il caldo. Abbassai gli occhi – I miei genitori sono morti. Ci fu un nuovo momento di silenzio, questa volta imbarazzato. - E' successo molti anni fa – volevo cambiare subito discorso – Ero ancora un ragazzino. Ora, ve l'ho detto, vado a casa di mia sorella. - Un ragazzino? – Aveva capito - Ma lei è ancora un ragazzino! - Eh sì, magari. Vado per i ventitré. - Io ne ho diciotto – disse di nuovo lei, senza guardarmi – Cinque meno di te. - Vedi? - E sua sorella, quanti anni ha? - Mia sorella? Venticinque. - Sposata? Pensai a Isabel e risi. – Non ci pensa proprio! Il quel momento la porta si aprì di colpo ed entrò il controllore, una bella donna, alta, gonna al ginocchio. - Voici mon billet. - Merci. - Madame, je voudrais… pardon moi, je ne parle pas... Fece la faccia disgustata dei francesi in queste situazioni. - Est-ce que vous comprenez l'anglais? - Up to a point, madam. What happened? - The engine had a breakdown. We are to be tagged to the nearest station, and twe shall leave again with a new engine. - Right. Thank you. - Lei è un poliglotta! - Oh, l'inglese per sopravvivere. - Cosa ha detto? – chiese lei. - Ci trainano in qualche modo alla stazione più vicina. Lì cambieranno il locomotore. La stazione era quella di una tal cittadina, Vallard. La faccenda non si rivelò affatto veloce come la controllora ci aveva fatto sperare. A un certo punto aprirono le porte e i passeggeri annoiati cominciarono a sciamare fuori. Si formò dalla locomotiva ai vagoni di prima una specie di struscio di provincia. L'uomo che viaggiava nel mio scompartimento si imbatté in un amico: cominciarono a lamentarsi per non essersi incontrati per tutto il viaggio. La ragazza stava guardando dal finestrino verso il villaggio con occhi annoiati; il padre si avvicinò e fece le presentazioni dal marciapiede. - Questo signore è Luis… sai, il magazzino di pellami. - Molto piacere. - Sorrideva mentre diceva olt, allungando le labbra. - Ma sì che mi ricordo di te! Ti devo presentare a mio figlio maggiore, quello che studia Legge. Un bell'elemento anche lui… Forse lo conosci. Lei fece una smorfia vaga con la bocca. - Non lo so. Forse. - Scendi a fare due passi? - le chiesi. - Ma no. Resto qui. Me ne andai alla locomotiva, a cercare di sapere quale fosse il guasto, scocciato da tutto. L'impressione era quella di una grande famiglia di viaggiatori, che tutti o quasi si conoscessero. Quando ritornai allo scompartimento vidi la mia compagna di viaggio parlare con un'altra ragazza. Non c'era più il padre: doveva essersi fermato con Luis. La nuova arrivata indossava un vestitino a righe molto scollato: stava spiegando di aver viaggiato in prima classe fino al momento del guasto. - Mi è capitato un viaggio…- diceva, - Tutti vecchi.- Era anche lei di Sitges. La loro conversazione scivolava sempre più verso un tono intimo di bisbiglio, e cominciò a venirmi sonno. Riaprii gli occhi al colpo della locomotiva che portavano dalla città. I grilli cantavano furiosamente. Il calore della sera era calato e le voci suonavano più animate. La gente saliva sul treno a gruppi, scherzando e aveva il viso soddisfatto. Entravano nei loro scompartimenti come quando si entra nel foyer negli intervalli del teatro. - Bene, amico, bene: sembra che adesso si vada veramente. Quando il treno infine ripartì chiusi un'altra volta gli occhi. Ma la crisi di sonno era passata. Presi un libro e cominciai a leggere. Non ci scambiammo più una parola per più di un'ora. - Venti minuti e siamo a Barcellona. - dissi, anzi, pensai ad alta voce quando ripartimmo da Salou. - Siamo quasi arrivate allora. - Ma non andate a Sitges? - Ci vengono a prendere in macchina a Barcellona. Che peccato - aggiunse - …una conversazione così interessante! - Ci hai veramente stordito di parole. - aggiunse l'altra. Le parole e il tono erano così insolenti che mi sentii in dovere di rispondere per le rime. - Sentite, bellezze… Si vede che non c'era niente da dirsi! Mi stavo rimettendo ostentatamente a leggere quando, con un gesto inaspettato, la bionda mi fece saltare il libro dalle mani. Si guardarono e risero. La bruna si alzò, tirò le tendine e serrò tra le mani le maniglie delle porta scorrevole dello scompartimento. L'altra mi si piazzò davanti e si chinò verso di me.. Mi apparve la linea del suo seno nello scollo della camicetta: quindi sentii le sue labbra appoggiarsi alle mie e la sua lingua cercarmi. Mi si appoggiò di fianco. - Continua pure a stare zitto. Anzi: non aprire mai bocca. Mi sbottonò i pantaloni, mi calò la chiusura lampo. Portavo gli slip: con un movimento brusco mi scoprì. La pressione dell'elastico sui testicoli era tutt'altro che piacevole, ma non mi lamentai, né mi mossi. La sua carezza fu invece inaspettatamente delicata. Mi masturbava con gesti leggeri, mentre mi sfiorava il glande con la punta delle dita dell'altra mano. Una o due volte respinse la mia bocca che cercava di baciarla. Chiusi gli occhi. La sentivo montare il mio piacere e affievolirlo semplicemente aumentando o diminuendo la pressione dei polpastrelli e il ritmo del polso. Poi di colpo si abbassò su di me. MI sentii avvolgere dal calore della sua bocca mentre la sua mano cominciò a muoversi molto più velocemente. Cercai gli occhi della ragazza che, alla porta, non aveva cessato di guardarci un attimo. Li trovai. Sentii il suo bacio inghiottirmi per intero. Ansimavo. La vidi alzarsi e avvicinarsi alla sua amica. Si baciarono. - Che te ne pare? - Oh beh, proprio niente male. - Qualcosa almeno per cui ricordare questo viaggio – rise. Mi guardavano, e io mi sentii talmente imbarazzato che mi rivestii. Gettai uno sguardo fuori dal finestrino. Le nuvole scure del tramonto stavano attraversando il cielo. Cominciavano ad accendersi lentamente le luci delle strade e delle case nella sera estiva. Poi il treno infilò la galleria che portava in stazione e fischiò: quasi tutta la gente stava tirando i bagagli al corridoio. - Dammi il tuo numero di telefono. Mi fissò con occhi tra il pensoso e l'ironico. - No. No, è meglio di no. Per chi annodi i capelli biondi, in eleganza pura? E molte volte piangerà l'inganno, contemplerà incredulo, inesperto, l'acqua inasprita sotto il vento nero: ora egli ha fede, gode del tuo oro, e pensa che tu sia la sua di sempre, sempre degna d'amore. Il vento muta. Infelice chi vede la tua luce, e non ti sa. Guardai l'amica. Mi sembrava imbarazzata, ma non aprì bocca. Arrivò da fuori la voce sale e pepe: - Ines! Ines! Ti vuoi sbrigare, porco mondo! Le sorrisi. - Se non altro ora so come ti chiami. - E' già qualcosa. Fu il suo saluto. Mi affacciai dal finestrino e le vidi scendere. Girarono dalla mia parte. - Ines! - Mi sporsi tendendole un biglietto da visita. - Fanne quello che vuoi. - Esitò un istante, poi lo prese. Le vidi allontanarsi. La bruna si girò: - Anche se non me lo hai chiesto, io mi chiamo Montse.
2. E' bello come un dio quell'uomo. - Andiamo alla ferrovia, allora? - Dai nudisti? - Ma sì… - Fate come volete. Ero a Vilanova da due giorni, e con Julia erano stati solo dispetti e litigi. Succedeva spesso, e allora ci rinfacciavamo le solite mancanze che non riuscivamo, o non volevamo, perdonarci. Certo che quella volta era peggio. Peggio da parte sua. C'era in lei un gelo che non aveva praticato nei miei confronti neanche nei momenti peggiori. Era una situazione in cui mi trovavo completamente disarmato: perché, comunque, io l'amavo pazzamente. - Allora andiamo, dai. Anche quella mattina le avevo chiesto stizzosamente perché mai dovessimo portarci dietro mia sorella. Non mi aveva nemmeno risposto. E così ora ci stavamo incamminando verso la cosiddetta, cosiddetta forse solo da noi, spiaggia dei nudisti, una lingua di sabbia ai piedi del terrapieno della ferrovia tra Vilanova e Cubelles frequentata, ma non monopolizzata, da adamitici. Scesi al mare, non andammo molto avanti. Sistemammo gli asciugamani e l'ombrellone. Isabel mormorò ridendo a Julia: - Guarda! C'è anche oggi! – Si girarono, abbastanza sfacciatamente, e io mi girai con loro. Un poco discosto, nella spiaggia semivuota, stava prendendo il sole sdraiato su di un asciugamano, senza ombrellone, un ragazzo della nostra età, o appena più vecchio. Anche lui cominciò a guardarci. Poi si alzò in un movimento fluido. Era, semplicemente, bello. Si avvicinò, alto nel passo elegante delle gambe, nei capelli scuri, corti e ben ordinati in un tocco di trascuratezza, nelle spalle larghe e proporzionate, nel petto ampio. Ciò che non poteva non colpire di più era il ventre, dove le pieghe appena accennate degli addominali e le vene in rilievo suggerivano senza urlarla la forza guizzante di quei muscoli. Il pube, come tutta la sua pelle, caramellata dal sole, era completamente glabro: glabro come la guancia di un seduttore, non come il corpo di un bambino perché, in quel corpo, non vi era nulla di fanciullesco. Dove si incontravano le due linee dell'inguine il pene, completamente ricoperto dalla pelle, staccava di una spanna almeno: in posizione di assoluto riposo, appariva ugualmente, indifferente al pudore e al fastidio, gonfio di vita. - Scusate se vi disturbo. E' vostro questo? Solo allora ci accorgemmo che aveva in mano un minuscolo quadratino di stoffa rossa. Lo svolse: era un perizoma di lycra. Isabel e Julia si guardarono e risero. - Pensavo proprio l'aveste dimenticato voi. L'ho anche lavato, a mano. – sorrise – Per non rovinarlo, naturalmente. Lo porse a Julia, che lo prese con un gesto quasi pudibondo. Mentre parlava, lo guardavo. Aveva labbra carnose e pronunciate; mentre si muovevano, mostravano il candore dei denti e il guizzare della lingua. Sentii un fremito nella carne, e mi girai prono per non mostrare l'erezione che sentivo montare. E' bello come un dio quell'uomo: davanti a te si siede e tanto vicino sente la tua dolce voce, la tua risata. Oh, a me il cuore batte forte e si spaventa. Ti vedo, un attimo e non ho più voce; la lingua è rotta; un brivido di fuoco è nelle carni, sottile. Poi si scusò: - Devo proprio andare. Devo aprire la bottega, e sono già in ritardo. Questo è il periodo che si vende. - Hai un negozio? – chiese Isabel. Fece un gesto vago. – Una cosa un po' particolare. Vendo cose che faccio io: sculture, quadri, fotografie… - Sei un artista. – lo interruppe Julia. - Diciamolo, se non ti sembra una parolaccia. – rise. Ritornò al suo asciugamano, si rivestì rapidamente, riempì la borsa e tornò da noi. - Allora, ciao. Se non vi dispiace vi lascio questo. – Mi porse un biglietto da visita.- Ad ogni modo, ci rivedremo sulla spiaggia. Credo. – Fu il suo saluto. - E' un maricon! – commentò Isabel. - Tu dici? – chiese Julia. - Poco ma sicuro. Tutto quel bendidio sprecato… - e le lanciò un'occhiata strana. Io andai a fare il bagno, da solo. Avevo, più o meno consapevolmente, deciso a tenerle il broncio, e il colpo stava andando completamente a vuoto. Mi distesi nell'acqua bassa, appoggiato ai gomiti. Il mare era caldo e appena increspato. Isabel e Julia parlavano fitto, mi giungeva l'eco delle loro voci. Poi sentii un bip del cellulare lasciato nella tasca dei pantaloni. Tornai all'ombrellone. Messaggio ricevuto: - Ciao chiacchierone. Eccoti il mio numero, allora. Com'era la frase storica? Almeno è qualche cosa! Ciao. I. – Salvai il numero, cancellai il messaggio. Tornai sulla battigia. Loro non avevano cessato di parlare, sempre più animatamente. La brezza mi portava qualche parola comprensibile, ora. Mi parve di sentire, tra l'altro: - …glielo dobbiamo dire… - Allora non ci pensai. Ebbi tutto il tempo di pensarci il giorno dopo.
3. Tutto il mio mondo crollò nel tempo di leggere una paginetta strappata da un quaderno. Tra molte scuse e anche qualche rimprovero mi veniva spiegato tutto chiaramente, fin troppo chiaramente. Mia sorella amava la mia fidanzata. La mia fidanzata amava mia sorella. Mia sorella era una lesbica, la mia fidanzata era una lesbica. Mia sorella era partita con la mia fidanzata. La mia fidanzata era partita con mia sorella. Se era un coltello piantato nella schiena, non sapevo neppure quale fosse il manico e quale la lama. Isabel doveva aver preparato la borsa mentre dormivo, e aver raggiunto Julia prima ancora dell'alba. Mi scriveva che avrebbero trascorso qualche giorno in un non meglio identificato balneario: il tempo di “far sbollire il tutto”. “Far sbollire il tutto…” Uscii sul balcone. Riuscivo a frenare il tremito delle mani, ma non quello delle ginocchia. Feci quel foglio a pezzi. In quel mattino caldo che prometteva una giornata canicolare si sentì come il passo dell'inverno. Dovevo far qualcosa. Qualcosa per scuotermi. Accesi il telefonino. Avevo due carte in mano. Calai il carico da undici.
4. O sensi o sensi cari, nemici del ricordo, nemici del desiderio, nemici del rimpianto, nemici delle lacrime, nemici di tutto ciò che amo ancora. Joel abitava vicino alla spiaggia di Sant Sebastià, in un grande appartamento all'ultimo piano di una palazzina. Per prima cosa, mi mostrò tutta la casa che certamente era, così immensa, così bella, così piena di lui nelle statuette, nei quadri, nelle fotografie incorniciate a vista sparse dappertutto, un motivo di grande orgoglio. C'erano diversi autoritratti fotografici. Uno, un grande nudo frontale, era appeso sfacciatamente su una parete della sala da pranzo. - Ti piace? - Molto. - Te ne faccio una. – Sorrisi. Tirò fuori da un armadio a muro una specie di grande schermo da diapositive che srotolò di fronte alla finestra, alcune luci e una sorta di scatola lucida che montò su di un treppiede. - Non sopporto nulla di digitale. Quando sarà proprio inevitabile, avvertitemi. Io, senza che lui non mi dicesse nulla, mi ero spogliato. Mi guardò. - Manca solo una cosa – disse. Mi precedette in bagno. Lo vidi prendere una bomboletta e un rasoio a serramanico. - Ti spiace? – Scossi la testa. Mi fece mettere di fronte alla vasca da bagno. Sentivo la lama passare sulla pelle cedevole dell'inguine, sfiorare le vene, la radice dell'asta, dei testicoli. Era spaventevole e insieme terribilmente eccitante, e paura ed eccitazione trovarono una manifestazione subitanea e più che evidente; senza che lo volessi, ma senza che neppure cercassi di evitarlo, la mia natura si irrigidì e si alzò proprio di fronte al suo viso. Lui non si scompose: io allargai le gambe mentre mi passava una salvietta umida a ripulirmi degli avanzi di schiuma. Mi aveva preso nella sua mano, e mi piaceva, e non riuscivo e non volevo evitare che se ne accorgesse. Passò il dorso dell'indice per tutta la lunghezza, mi baciò, con la pelle delle labbra, nella piega del frenulo. - Non attenterò alla tua innocenza - commentò ridendo. – Se non vorrai… Tornammo in sala. Scattammo foto per un dieci minuti, in varie pose. Poi raccolse i miei vestiti e me li porse. - Le foto saranno pronte tra una settimana. – Abbassò il tono della voce. – Ora, che fai? Vai via? Su di un ripiano, vicino a dei fotogrammi tagliati., vidi un paio di forbici di acciaio, simili a quelle da sartoria. Le presi. - Adesso tocca a te. Gli feci saltare i bottoni della camicia ricamata e gli tagliai la corda che le reggeva i calzoni di lino. Gli sfilai i vestiti. In camera da letto uno specchio enorme occupava la parete dietro la testiera. Lo feci sdraiare. Era rimasto con gli slip: passai una punta sotto l'elastico e la feci scorrere lungo la stoffa. Il tessuto saltò, lasciandolo scoperto. Quel membro enorme nel riposo della spiaggia era teso nell'erezione. Lo presi con entrambi le mani: per chiuderle dovevo stringere la carne. Scopersi il glande: era violaceo, quasi liscio, lucido. Avvicinai di più il viso. Chiusi gli occhi. Un odore così simile al mio, ma non il mio. L'odore di un uomo. Possibile che provassi un tale stordimento? Sulla punta gocciava un tremore lattiginoso. Lo raccolsi con la lingua. Oh, cosa sto facendo? Ma è così bello! Strinsi più forte. Spinsi più in basso. Cominciai a leccargli la pelle rugosa dei testicoli. Le mie dita pulsavano del battito ingorgato della sua vena. Lo sentii liberarsi del suo seme con strappi violenti, e fu come se stessi venendo insieme a lui. Restammo un poco a fianco a fianco. Il suo respiro si ricompose; si girò verso di me, si inginocchiò sul letto, si chinò al mio orecchio. “Vuoi?” Non risposi. Aprì le mani e cominciò a passarmele lungo il membro. Le muoveva dalla radice verso la punta, indugiava sul glande, poi ricominciava. Mi piaceva. Mi piaceva come non mi era mai piaciuto con nessuna donna. Lo fermai. Avevo colto cosa voleva da me, e non volevo finire subito. Lo feci sistemare su ginocchia e gomiti, gli passai le dita tra le natiche. Anche lì era completamente liscio. Mi appoggiai, ed entrai alla prima spinta. Le finestre dell'attico davano sulle colline verso Sant Pere. Stava calando la sera, e il verde pallido si aranciava nel tramonto incombente. Stavo già per venire, mi fermai. Poi ripresi. Così per due o tre volte. Poi mi lasciai, come lì vicino, sulle rocas a Sant Sebastià i tuffatori si buttano quando l'onda riempie la cala.
5. Perché infelicità vi sia, bisogna che il bene stesso faccia male. Seduto a un tavolino della passeggiata, avevo ordinato una birra e due panini. L'orologio segnava le nove meno un quarto. Una sera mite come un pomeriggio. Sentivo le punte dei capelli bagnate della doccia intiepidirsi contro la nuca. … La doccia. Non appena avevo sentito l'acqua scorrere nel bagno il cuore si era messo a tempestarmi nel petto. Mi ero alzato senza fare alcun rumore. Mi ero infilato gli shorts e la maglietta; le mutande le cacciai in tasca. In silenzio come un ladro, con le scarpe in mano, mi ero avvicinato alla porta. La aprii maledicendo ogni cigolio. Appesa al muro c'era una lavagna magnetica, i fogli fissati da calamite colorate. Li tolsi tutti e ne lasciai solo uno; scrissi: - Grazie della serata, ma non sarò mai… - cercavo un'altra parola, poi invece la scrissi di proposito a fargli, a farci male - … un maricon. – Chiusi facendo scattare la serratura. Eravamo amici e siamo diventati degli estranei. Ma è giusto così: noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua meta e la sua strada. E se ci incontreremo ancora, non potremo riconoscerci, tanto mutati da diversi mari e da diversi soli. Avevo guidato fino a Vilanova in una sorta di trance. Mi ero lavato, vestito di fresco, ed ero uscito. Ora ero seduto a spiluccare qualcosa, confuso, agitato. Presi il telefonino. - Pronto? - Ines? - Sì? - Sono il chiacchierone del treno Non mi parve sorpresa. - Ciao. - Senti Ines… non farmi troppe domande, ma che ne diresti se ci vedessimo stasera? - Stasera? - Sì, stasera. In un albergo, ti va? Sì mise a ridere. - Tu sei matto del tutto! - Questo è sicuro. Ma non sto scherzando. Si fece seria. – Vieni tu a casa mia. Mio padre è via tutta la settimana. - Sei a Sitges, vero? - A Sitges. Scrivi l'indirizzo. Il cuore ebbe come un balzo. - Sono lì tra mezz'ora al massimo. Sono solo cinque chilometri. Anzi, sei. - Lasciami il tempo di prepararmi! - Oh, non farti troppo bella. Quando si è fatti come te non occorre abbellirsi. Basta un nodo ai capelli profumati. La casa era all'inizio del paese, una zona di piccoli condomini. La strada era cieca e terminava ai margini di una specie di boschetto. Parcheggiai. Suonai il campanello. - Chi è? - It's me. - Sali. Secondo piano. L'ingresso dava direttamente sul soggiorno living. Mi invitò sul divano. Prima di sedersi accanto a me accostò le tende. - Vuoi qualcosa? - Mah… qualcosa da bere, grazie. - Un Martini? - Un succo di frutta. Rise. – Liscio? Riempì i bicchieri e tornò a sedersi. Bevemmo. Ci guardavamo negli occhi senza una parola. - Ines… - Sì? - Ines… E se andassimo a scopare? Suonò il campanello. Ebbi un sobbalzo, e pensai subito a suo padre. Poi vidi il suo sorriso, e capii tutto. - Montse? - Sì.
6. Sdraiato sul letto, gli occhi chiusi, giocavo il tentativo impossibile di distinguere l'una dall'altra le due bocche che mi stavano baciando tra le gambe. Poi una delle due si staccò, e la sentii risalire tutto il corpo fino a cercare la mia. Era Ines. Si sollevò sulle ginocchia ad allargare le gambe contro il mio viso; si spinse contro la mia bocca. Entrai con la lingua tra le sue labbra dischiuse, un po' irridenti. Aveva un sapore dolce. Cominciai a passarla dove la sapevo più sensibile, mentre lei premeva così forte da farmi male. Sollevai le braccia a cercarle i seni con le mani. Montse intanto mi baciava con finta ingenuità, leccando più che cesellando: in realtà sapeva benissimo dove fermarsi, e ogni tanto mi faceva sentire il sapore dei suoi denti. Poi prese il pene in bocca, stringendomi gentilmente i testicoli. Ruotava la lingua attorno alla testa insieme a un lentissimo accompagnamento dentro e fuori. Io continuavo a baciare la sua amica, ogni tanto scivolando fino all'ano mentre lei con il clitoride e tutto il pube mi cercava i denti e le gengive. La sentivo colare fino al collo e mi sembrava ormai così vicina all'orgasmo che pensai che saremmo finiti così, lei nella mia bocca e io in quella di Montse. Invece si allontanò improvvisamente. - Voglio sentirti dentro – disse. Si sdraiò sulla schiena. Allargò le gambe, sollevandone una ad appoggiarsi alla mia spalla. Ci trovammo in un certo senso incrociati, in una posizione piuttosto instabile a dire il vero, tanto che dovetti sorreggermi con un braccio. Ma eravamo in tre, non in due. Montse si insinuò dove le nostre nature si univano e cominciò a giocarci con la bocca e con le mani. Cominciai a muovermi lentamente. Scorrevo dentro il corpo di Ines e sulla lingua di Montse, che con una mano mi sfiorava. Era meraviglioso. Con l'altra mano masturbava l'amica. Le lessi in volto l'orgasmo imminente: lei dovette leggerlo nel mio. Venne, e subito dopo venni io. Continuai a muovermi in Ines fin quando mi riuscì, poi scivolai fuori. La bocca, tutta la bocca di Montse affondò allora in quel rifugio, a baciare, a leccare, a cercare. A ingoiare. Io e Ines la guardavamo e i nostri occhi si incrociarono più volte. Mi cercò con la punta delle dita: occorreva anche meno per provocare il mio ritorno. Scivolai dietro Montse, e la presi. Era una pozza quasi gocciolante. La cercavo con spinte lente e profonde, guardando Ines negli occhi. Il bacio che stava ricevendo non doveva essere meno delizioso che eccitante. Intuivo dai movimenti della nuca cosa Montse le stesse facendo con la bocca, con la lingua. Le sue mani la carezzavano sul seno, sulla pelle interna delle cosce, nelle pieghe dell'inguine. Ines sollevò il bacino. Chiuse gli occhi, si morse un labbro. Ebbe come un breve tremito. Rimase un poco immobile, come pensosa. Poi sgusciò via, mi si inginocchiò di fianco. Mi carezzava la schiena, dall'alto verso il basso, contemplando ciò che stavo facendo a Montse. Fece scivolare la mano tra le mie gambe. Con dolcezza, mi prese alla radice, mi accompagnò fuori, mi appoggiò più in alto. Spinsi. Le natiche si schiusero e mi sentii di nuovo avvolto dal calore, in un gemito di Montse che poteva essere un lamento, ma anche godimento: mentre mi guidava Ines aveva preso a masturbarla. Mi chinai in avanti a baciarla: nella sua bocca, forte, il sapore del mio sperma. Fu mentre ero in questa posizione che sentii la lingua di Ines che mi cercava i testicoli; poi cercò qualcos'altro. Fu un bacio dolcissimo, fatto di labbra e, soprattutto, di lingua. Ruotava lentamente la punta come a insinuarla, interrompeva un attimo per leccare le superficie grinzose che trovava, poi ritornava. Usava anche le mani, ma solo per carezzare, per allargare morbidamente la via alla bocca. Poi, quando le parve che fosse giunto il momento, mi penetrò con un dito. Diedi un respiro profondo mentre lei scorreva quella via elastica. Poi uscì da me, e ritornò, con l'indice e il medio insieme. Questa volta non potei trattenere un gemito che era quasi un grido. Mi muovevo rapidamente ora, erano spinte in avanti a penetrare Montse e indietro a essere penetrato da Ines. Sodomizzavo Montse, ed era come se anche Ines lo facesse. Non rallentai neppure quando il suo orgasmo mi strinse dentro di sé, non rallentai fin quando quella frenesia si risolse in uno spasimo perduto nelle profondità di Montse. Mi abbondai sul letto. Mi guardai: svuotato, arrossato, impiastricciato di ogni cosa. Per quella sera avevo dato tutto.
7. Mi svegliai nel pensiero di Joel e mi resi conto che non avevo smesso di pensarlo un solo attimo. Guardai l'orologio. Erano quasi le due. Mi alzai e cominciai a rivestirmi. - Che cosa fai? - Vado. Ines si sollevò sui gomiti. Montse aprì gli occhi, ma non si alzò né disse nulla: si limitò a stirarsi, come un gatto disturbato nel suo riposo. - Vado. Devo andare, scusatemi. - Ma perché? Mio padre non tornerà, stai tranquillo. - Non è per tuo padre… Non posso spiegarti. E' una cosa stupida ma… Devo andare ora. Scusatemi. Anche Montse si era seduta. L'abbracciò, le diede un bacio sulla guancia. Col dorso dell'indice cominciò a carezzarle un capezzolo. - Oh, se se ne vuole andare, lascialo andare! - Hai ragione – le dissi, senza un'ombra di ironia. – Hai perfettamente ragione. Aprii la seconda porta di quella giornata complicata e interminabile. Feci per uscire. Le due ragazze, abbracciate contro la testiera del letto, erano un'immagine così bella che sentii come il cuore sciogliersi. Mi fermai sulla soglia. - E' stato bello. E' stato molto bello. Grazie. - E' già qualcosa. – disse Ines. Le sorrisi: - E' già qualcosa. Scesi le scale in fretta. Arrivai a casa di Joel che erano passati, forse, dieci minuti, senza sapere in verità che fare. Esitai; suonai, piano, il campanello. Mi rispose, quasi subito, la sua voce impastata di sonno. - Chi è? - Sono io, Joel. Sono io. Silenzio. - Joel, ascolta… senti… Posso salire? La mia vita in una manciata di secondi. - Certo che puoi salire. Sali.
8. Forse vi dico di uccidere i vostri sensi? Io vi consiglio l'innocenza dei sensi. Cominciammo a vivere insieme. Non come amanti: quel pomeriggio d'amore non si ripeté più, e rimase insieme il primo e l'ultimo. Ma meno ancora come due amici che semplicemente dividono un alloggio. Eravamo sempre insieme. Joel aveva un negozietto in calle *** dove vendeva i suoi quadri e le sue statuette. Non c'era davvero il via vai, ma gli affari, soprattutto con gli stranieri, non andavano per niente male. Ci svegliavamo la mattina, lui sempre prima di me, facevamo colazione alla caffetteria, andavamo al mare, in un posto dove ci si potesse spogliare – ma lo avevo pregato di non tornare a Cubelles – quindi, da dopo pranzo fino a cena, stavamo in negozio. Io lo aiutavo – lo aiutavo a fare nulla! – quindi, dopo aver chiuso, stavamo fuori fino a tardi. Nel letto mi rannicchiavo contro di lui, e il suo corpo, duro e forte, mi riscaldava e comunicava energia. La mia vita si era incamminata di modo che mi sorpresi a dirgli che non pensavo che potesse offrire tanta serenità. Però mentivo, a lui e me stesso. L'inquietudine mi dava qualche pausa, ma non mi abbandonava, ed era un'inquietudine che nasceva, lo intuivo bene anche se non lo afferravo interamente, dai nodi non risolti del mio passato. Sul come scioglierli, poi, le idee mi si facevano ancora più ingarbugliate. Infine, quest'inquietudine prese la forma, dopo appena una settimana, di Julia e Isabel che entravano nel negozio. Ero seduto dietro al tavolo di modernariato che faceva da cassa. Joel stava leggendo un opuscolo appoggiato a uno scaffale. Il cuore si fermò. Sgomento: forse non è il termine esatto, ma non saprei trovarne un altro per esprimere, in qualche modo, ciò che provai nel vederle passare quella porta.. - Chi si rivede!– esclamò Isabel. - Ciao. – disse semplicemente Julia. La mia faccia doveva essere più esplicita che qualsiasi domanda, perché mia sorella mi disse, quasi ridendo: - Sai, le voci girano – lanciò un'occhiata a Joel - …soprattutto in certi ambienti. – Io non sapevo cosa dire, ero come paralizzato da una sorta di terrore e insieme dall'emozione, che sentivo confusa, di rivedere Julia, e le parole mi si annodavano in gola. - Come va? – mi chiese lei, in tono gentile. Non mi riuscii di rispondere neppure a questa domanda di prammatica. Lo fece Isabel, per me: – Oh se si sente bene… magari un po' dolorante, poverino! – Fu solo a questo punto che Joel intervenne, e lo fece nella maniera più rude. - Sentite stronze, non vi sembra di averla tirata troppo a lungo? Con che faccia da culo venite qua a rompere i coglioni? Julia fece una smorfia che forse intendeva essere ironica. – Che ti ridi, stronza? Scese il gelo. Avessi anche saputo cosa fare, mi bloccava quel terrore che fa sperare, nelle situazioni disperate, che tutto precipiti purché finisca. Poi Joel si avvicinò al tavolo, prese un biglietto da visita e scrisse velocemente. Porse il cartoncino a Julia. - Questo potete fare –, la sua voce, in un'improvvisa metamorfosi, si era addolcito in un tono di pensosa pacatezza, - Venire da noi, già stasera. E' il minimo che possiate fare, e insieme è il massimo. Io so che lo capite. Ora però andate. – E dicendo questo aprì la porta – Vi aspettiamo questa sera. So che ci sarete. -
9. - Non verranno. - Verranno, vedrai. Guardai ostentatamente l'orologio. – Sono già quasi le dieci. Non verranno. - Non le ho mica detto di venire a cena. Mi lasciai andare su una poltrona. Presi una rivista e la sfogliai senza neppure guardarla. - Non verranno. - Vedremo. Suonò il campanello, direttamente alla porta di ingresso. A Joel bastò guardarmi in faccia per capire che non avrei trovato la forza per andare ad aprire. Lui fu quasi formale. Strinse la mano a entrambe mentre le baciava fuggevolmente sulle guance, poi le invitò a sedersi in salotto, dove io non mi ero nemmeno alzato. Ci salutammo. Julia indossava un vestito prendisole che nel sedersi le lasciò le gambe scoperte. Joel ci versò da bere, poi si accomodò ai miei piedi. Eravamo di fronte a loro, e vidi che si tenevano per mano. - Parlo io che sono, in un certo senso, il meno coinvolto. Meno coinvolto… dico questo perché c'è sicuramente un cerchio d'amore, amore a vario titolo, che vi ha legato.- Diede un sorso – Ecco: se c'è un amore che vi ha legato, non può che continuare a legarvi ancora. L'amore non muore mai. L'amore, se c'è stato, c'è per sempre. Tacque, come per lasciarci riflettere, e intanto, con un gesto spontaneo, cominciò a carezzarmi tra le gambe. Io scivolai un poco in avanti. - Non possiamo sprecare l'amore. Non dobbiamo… dico di più: non dobbiamo. Ma voi lo sapete meglio di me, è per questo che siete venute. E se anche adesso andaste via, sono sicuro che ritornereste. Quello che ho detto lo sapete meglio di me. Perché, ditemi, altrimenti perché sareste qui? Ci fu un attimo di silenzio. – Forse per vedere se per caso le nostre non siano che voci diverse che dicono la stessa parola – disse Julia. Di nuovo tacemmo. Allora sentii la mia voce parlare come se non mi appartenesse: - Non è parola, canto. Per confondere i nostri canti in una sola canzone. Ora il silenzio era quello di chi teme di rompere un incanto. Lo fece Joel, e le sue parole rinfrescarono l'atmosfera senza instupidirla. - I poeti… Avrei voluto trovare le stesse parole, ma io avrei impastato del fango, e loro hanno creato dell'oro. Io avrei detto che forse siete venute a scoprire se è poi così brutto prenderlo… - lanciò uno sguardo ironico a Isabel - …come si può dire? - - Si può dire prenderlo nel culo – rimandò lei – E chissà, forse le due cose non sono incompatibili. Senza che ci dicessimo più nulla, come se a questo punto ogni parola fosse divenuta inutile, ci togliemmo i pochi vestiti che avevamo addosso. – La camera è di là - mormorò Joel, e Julia e Isabel ci precedettero, sempre tenendosi per mano. Anche Joel prese la mia. Entrammo nella stanza che erano già sul letto, in ginocchio una di fronte all'altra. Si baciarono. Poi Isabel scivolò distesa, e Julia le fu sopra; ma non viso contro viso: le labbra cercarono la labbra, ma erano le labbra dischiuse in un affanno leggero e quelle rivelate in un gesto elegante di gambe che si aprivano. Mi appoggiai allo stipite. Vidi la mia erezione nello specchio prima ancora di sentirla nella carne. Joel mi cercò con la mano, poi si chinò. Mi sentii prendere nella sua bocca. Cercai il muro con i gomiti, come a sostenermi. I miei propositi vacillanti erano scossi come da un terremoto. Vedevo, davanti agli occhi o riflesse nello specchio, dita e lingue che cercavano, frugavano in quei fiori rossi che si allargavano, e quelle dita, quelle lingue, e quelle fiche, erano la mia fidanzata, era mia sorella. E quella testa di capelli mossi, quella spalle e quella schiena così stupendamente, così sfacciatamente maschili si muovevano sul cazzo di un altro uomo, e quell'uomo ero io. Ebbi per un istante l'istinto di fuggire, fuggire un'altra e ultima volta. Ma fu davvero un attimo. Joel si alzò. – Vieni - mi sussurrò, e salimmo anche noi sul letto. Si avvicinò a Julia, le carezzò la schiena; sfiorandole appena le baciò le labbra. Quindi, con un movimento rapido e improvviso sfilò da sotto un cuscino un tubetto inequivocabile. Mi guardò mentre me lo passava. – Questo per dimostrarti quanto sapevo che sarebbero venute. Lo sapevo per certo. Ripeté, rivolto a loro: – Lo sapevo per certo. Gli spinsi la verga verso il basso, schiacciai il tubetto. Lo unsi per quella lunghezza stupenda e appena arcuata, aggiunsi un poco di crema sulla punta; poi avvicinai le dita vischiose a dove Julia lo avrebbe ricevuto. - Lo vuoi fare? - Mi rispose con un cenno del capo. Era stata una domanda inutile: in quel momento, per un qualche motivo inspiegabile e insieme ineluttabile, appariva come necessario che Joel sodomizzasse Julia. Così unsi anche lei. Guardai Joel. - Guidami tu – disse. Isabel era scivolata di fianco, intenta a non lasciarsi sfuggire il minimo particolare di tutta la scena. Io accostai la punta al forellino appena dilatato. Joel era tanto lubrificato da guizzarmi tra le dita, ma fu lo stesso una penetrazione difficile, benché Julia collaborasse con ammirevole volontà. Due o tre volte lui si ritirò non volendo, e forse non potendo, forzare la strada ad ogni costo. Poi scomparve in lei, di colpo. Vidi Julia mordersi un labbro, cercare quasi disperatamente le mani di Isabel. Lei le carezzò i capelli, amorevole, le sussurrò qualcosa nell'orecchio. Poi si mise anch'essa carponi, appoggiando la testa al suo bacino. Le fece scivolare una mano lungo il ventre quindi, con dolcezza, prese a masturbarla. Mi accostai a lei, così levata sulle mani e sui ginocchi. Mi chinai. Davanti a me, nel solco tra le gambe semiaperte, le sue parti più segrete. Vi feci scorrere un poco di saliva, cominciai a carezzare con un dito il bottoncino di carne tra le labbra. Più in alto era come un bocciolo color zucchero scurito, appena prominente. Con la punta della lingua lo leccai con delicatezza, e con delicatezza provai a insinuarla. La penetrai nella vulva con un dito: era tanto bagnata da gocciare. Lo feci scivolare lungo l'incavo tra le natiche, fin dove la stavo leccando. Lo spinsi dentro. Lo rifeci, questa volta due dita. Percepii come un accenno di irrigidimento, ma poi la sentii cercarmi. Spinsi fino alle nocche. Pensai che, in qualche modo, anche Ines era qui tra noi… Mi alzai, una gamba fuori dal letto e l'altra piegata sopra le lenzuola. Mi appoggiai a lei, le mani sui fianchi. La penetrai nella vagina, ne uscii, la cercai nella via più stretta. Colsi un movimento di accompagnamento, e allora spinsi. Entrai quasi senza sforzo. Quanta differenza con Joel e Julia… un segno, forse? Non ci pensai. Cominciai a muovermi, senza frenesia e senza difficoltà. Era stupendo guardarla così, la schiena inarcata verso il basso e le spalle sollevate, sentendomi sfiorare la pelle delle cosce dalle dita bagnate dalla sua masturbazione, il fallo piantato tra le natiche: le natiche di mia sorella. Le presi un capezzolo tra due dita. Lei sollevò la testa e si girò a guardarmi. - Non dici nulla? - Ti faccio male? - No… non senti? - Ti piace sentirlo nel culo? - Io… - Parlami… Ti piace sentirlo nel culo? Non mi rispose. La carezza sulla punta de seno divenne una stretta, e la sentii contrarsi attorno a me, violentemente. Per un momento ne fu come travolta, poi, poco a poco, il respiro si placò e riuscì a parlare. - A Julia. Voglio che tu poi lo faccia anche a Julia. Farlo a Julia… Guardai Joel. Ogni suo gesto, ogni suo movimento, ogni guizzo del suo corpo esprimeva tenerezza e forza. Quando si accorse che lo stavo osservando cercò i miei occhi e, lentamente, arretrò il bacino a sfilarsi. Era, letteralmente, impressionante. Il glande, poi, arrossato per lo sfregamento, lucido, gonfio, mi parve enorme. Un filo lattiginoso si curvò miracolosamente senza rompersi a unire quei due corpi separati per un istante. Era una visione di tale bellezza e tale potenza che mi sentii confondere. Volli toccarlo, accarezzarlo. Ebbe un riflesso: quell'arco si ruppe e mi impiastricciò le dita. Le portai alla bocca di Julia, e quasi mi morse quando Joel, di colpo, affondò di nuovo. Dalla sua bocca sfuggì una specie di lamento inconscio. Ma non era dolore, che il dolore, travolto nella mareggiata del piacere, non era diventato che un'onda di quella tempesta, e forse l'onda più violenta. Meglio: erano il piacere ed il dolore che avevano cessato di combattersi, che avevano anzi finito di essere, ed erano diventati estasi. Isabel si sporse in vanti a masturbarla di nuovo, spingendo la testa sotto la spalla di Julia a cercarle il seno. Non era facile mantenersi in quella posizione, e scivolai fuori La voce di Julia era poco più che sussurrata, ma il tono pareva quello di un'invasata. - Mordimi… mordimi i capezzoli! – La punta del suo seno scomparire nella bocca di Isabel. - Più forte… devi farmi male… Mi misi di fianco a Joel e lo carezzai sul petto, sopra il ventre. Tutta la schiena di Julia tremava attraversata da brividi sempre più violenti e più frequenti. La mano di Isabel si muoveva rapidamente ora, e vidi i segni dei suoi denti su quella pelle delicata. Io sentivo i muscoli di Joel indursi, la congestione delle vene dell'inguine mentre la sua corsa si faceva affannata. Vennero nelle frasi sconnesse di Julia che alla fine si erano fatte quasi grida, nel rantolo profondo di Joel. Julia si gettò sul letto, e quando lui uscì da lei mi resi conto che la sua era stata un eiaculazione enorme. Guardai, come impietrito, lo sfintere oscenamente dilatato che continuava a buttare sperma quasi come lo sgorgasse, non lo restituisse. Quella era la mia fidanzata: di nuovo mille pensieri mi attraversarono la mente. Joel dovette intuirli nei miei occhi. Julia stava ancora respirando affannosamente che la prese per mano e la fece sdraiare sul fianco, davanti a me. Poi mi prese nella mano e mi accostò alle sue labbra. Lei mi accolse, amorevole mentre Joel mi stimolava, lentissimo. Una grossa goccia era fiorita sulla punta. La leccò via, poi cercò di insinuare la lingua, come a cercare altro miele. Vidi, come un piccolo graffio nella piega del glande, uno striscio della materia di Isabel. Il fiato mi si fermò quando intuii la lingua di Julia toccarla, più ancora quando la sentii scorrere, e indugiarvici. Mia sorella si alzò, mi passò un braccio attorno al collo. Le nostre bocche erano così vicine da sfiorarsi, le sue labbra dischiuse. Le nostre lingue si incontrarono a mezza strada, si mescolarono… Fu come se un muro costruito con l'inganno e con l'abitudine, guardato con terrore soprannaturale e contro ogni legge di natura crollasse sotto la spinta di una volontà finalmente libera. La sua mano mi carezzava i testicoli. Di nuovo il pensiero a Ines… Anche lei, anche Montse erano nel mio cuore, anche loro, in quel momento ne fui sicuro, si sarebbero unite a noi… Ma ora… ora non mancava più molto. Sarei venuto nella bocca di Julia, ed era come se fosse la mano di Joel a versare il seme montato da Isabel, nel suo profondo pozzo di bronzo. Il cerchio si chiudeva. Ma un cerchio più ampio, più grande e più luminoso. La mano di Joel, la bocca di Julia, le dita di mia sorella e il segno che mi aveva lasciato nel sodomizzarla… Una vita di timori. Secoli in un mondo di timori. Tutto si sarebbe sciolto nelle contrazioni del mio ventre. Non mancava più molto. Il movimento di Joel, senza neanche accennare a farsi brusco, era più rapido ora. Le labbra di Julia mi tenevano, e la punta della sua lingua mi cercava, mi circondava, mi avvolgeva. Mi girai verso Joel. Nella semioscurità sentivo, mescolato a cento altri, l'odore agro del suo sudore. Lo baciai. Per la prima volta lo baciai. Lo baciai con le labbra, con la lingua, con i denti: con tutta la bocca in tutta la sua bocca. Avrei bevuto il tuo seme, amore. E tu avresti bevuto il mio. E mi avresti penetrato amore… Come lo volevo! E avresti penetrato Isabel, l'avresti sodomizzata, le avresti riempito la bocca del tuo piacere… Non l'avevo mai scorta così vicina la felicità; non mi ero mai sentito così libero da angosce, dubbi, preoccupazioni, perfino da desideri: il godimento superava le possibilità che il desiderio aveva fatto intravedere. No, non sentivo più desideri: la mia anima non era solo appagata, ma sommersa: era la gioia vuole se stessa, la ripetizione delle stesse cose, che vuole che tutto resti com'è. Venni. Se ci fu volta che desiderai di versarmi in una bocca, fu quella. Mi donavo e mi promettevo come un bambino, un bambino con il fallo eretto… Julia mi accolse con la dolcezza di un'innamorata, con sorsate lente. Sì, mi amava: mi amava di nuovo, mi amava di più. Joel aveva accompagnato gli ultimi colpi dell'orgasmo con una carezza leggerissima. Lo baciai di nuovo. Anche Julia e Isabel si baciavano. Alcune grosse gocce color latte erano cadute sul seno, sulle braccia: le vidi leccare l'una l'altra, toccarsi con le lingue dove indugiava la sostanza saporosa. Ci sdraiammo, in una confusione di corpi, in una comunanza di anime. Davanti a noi, c'era tutta quella notte. E poi, un'altra, un'altra, un'altra ancora… Conteremo i granelli di sabbia del deserto, i lumi della notte, non gli infiniti vostri giochi d'amore. Citazioni da Saffo, Orazio, Properzio, Catullo, Apollinaire, Nietzsche, Goethe, Martin Gaite, Orwell, Barbero, Pederali. Testo di milton, quello con la emme minuscola.
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