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19/06/2006
UNO DOZZINA DI CAMICIE
Alla Dina era arrivato dopo una esclamazione di Livia, una mattina, al risveglio: “Non puoi continuare a portare quelle camicie!” Lo stava guardando con occhi che sembravano distratti, ancora distesa illanguidita dopo l'amore, e improvvisamente invece, sollevandosi sui gomiti, gli aveva detto con ironia, mentre lui si stava rivestendo: “Come è possibile che le tue camicie abbiano le maniche così lunghe, sembri Cucciolo!” Effettivamente anche a lui dava noia l'eccessiva lunghezza delle maniche delle sue camicie, con i polsini che fuoriuscivano sempre dalle maniche e si arrotolavano e spiegazzavano, costringendolo continuamente a tirarli dentro. “Il fatto è che con questo mio collo taurino devo prendere sempre camicie di qualche misura più ampia, che hanno quindi anche le maniche più lunghe…” le rispose un po' seccato, osservandola riflessa nello specchio intanto che si allacciava il bottone del colletto. Era ancora una bella donna, il corpo nudo spiccava, con la sua pelle ambrata, sul bianco delle lenzuola e gli faceva ancora salire, mentre la guardava, ondate di desiderio non sopite nonostante le battaglie della notte, che l'avevano spossato. Ma quel richiamo alle maniche della camicia, in quel momento, con quel tono di rimprovero che gli era parso quasi sarcastico, gliela fecero odiare e la vide meno bella: notò le smagliature di cellulite sulle cosce, i seni un po' appesantiti, qualche piccola ruga che si affacciava sulla fronte… Livia dovette accorgersi del nervosismo che gli aveva causato con quell'uscita e si alzò, avvicinandoglisi conciliante: “Sciocco, non volevo offenderti! Del resto puoi sempre provvedere, facendoti fare le camicie su misura, no?” Sarà stato il tono della voce o il corpo nudo di lei che gli si strusciava addosso e che avvertiva, caldo e fremente, attraverso la stoffa della camicia...Cesare la sentì nuovamente bella, bella e desiderabile, come sempre, quando non riusciva a resistere al suo profumo e al suo calore. Non resisté, infatti, e insieme precipitarono nuovamente sul letto, che li accolse nelle impronte che già poco prima avevano lasciato. Quando si rialzarono, e questa volta definitivamente, Livia, con tono scherzoso ma amorevole, gli suggerì: “Non ti innervosire, adesso, altrimenti sono costretta a calmarti e così ricominciamo: ti darò io l'indirizzo di una camiceria dove potrai provare a farti cucire camicie su misura, è la stessa camiceria di mio marito, così avrete qualche altra cosa in comune, oltre me!” La battuta servì a farli sorridere entrambi, e su quel sorriso si lasciarono. Andò poi Cesare, un giorno, alla camiceria del marito, più per curiosità che per convinzione: aveva ritrovato in una tasca il biglietto con l'indirizzo e gli venne l'idea improvvisa di andarci. Magari avrebbe anche incontrato Aldo, si sarebbero salutati da quei vecchi amici che erano e lui avrebbe provato un sottile piacere nel dirgli di portare i suoi saluti alla moglie, la cara Livia, “Non la vedo da tanto tempo!...”, la Livia che per una intera settimana, quella in cui Aldo era stato all'estero per lavoro, si era freneticamente abbandonata giorno e notte fra le sue braccia, mai esausta. Non poté invece provare quel sottile piacere: non lo incontrò e rimase deluso e seccato, come se l'altro fosse mancato ad un appuntamento. “Mi dispiace, signore, non posso assumere altro lavoro, sono carico di impegni per almeno due mesi…” si scusò il proprietario leggendo la delusione sul volto di Cesare e sentendosene però lusingato, anche se aveva frainteso il motivo. Si sentì quindi obbligato a soccorrerlo: “Senta, posso aiutarla, se vuole: una mia lavorante, la più brava a dire la verità, mi ha lasciato e si è messa in proprio. A lei ricorro spesso, quando sono in ritardo con le consegne. Le darei il suo indirizzo…” poi, vedendolo incerto, lo rassicurò “ Può fidarsi, le camicie escono dalle sue mani come uscirebbero dal mio atelier, perfette ed eleganti, le migliori camicie della città, dopo le mie, naturalmente! Vedrà che non si troverà male…” E gli sorrise con un sorriso indefinibile. Gli passò un cartoncino, il biglietto della camiciaia, che Cesare prese distrattamente, senza neppure guardarlo. Anche questa volta il biglietto se lo ritrovò in mano per caso un giorno e fu costretto a guardarlo per capire cos'era. Lesse “ Dina, camicie di lusso, su misura. Solo per appuntamento…” poi l'indirizzo e il telefono. Ma lo colpì la foto, la foto che campeggiava al centro del cartoncino: un volto di donna, chiuso da una corona di capelli rossi, un rosso tiziano avvampante. E in mezzo al volto due occhi verdi e profondi, di cui sembrava non vedersi il fondo, enigmatici, che sembravano uscire dall'immagine tanto erano vivi. Rimase colpito da quel volto, così colpito che per tutto il giorno se lo vide comparire nella mente irrompendo nei suoi pensieri e gli sembrava un inconscio richiamo. “Devo proprio farmi delle camicie su misura!” si sorprese a pensare, chiedendosi poi se l'affermazione era dovuta all'ossessione di quel volto o ad una reale necessità di camicie. Telefonò: la voce femminile che rispose aveva anch'essa un tono enigmatico, quasi misterioso, era una voce profonda, sensuale…Marlene Dietrich, pensò mentre si sentiva avvolto dai suoni caldi che gli giungevano nell'orecchio. Associò subito la voce all'immagine del cartoncino: era lei! Era la camiciaia dagli occhi verdi e dai capelli rossi, non poteva che essere la sua voce! Balbettò un po' prima di riuscire a precisare lo scopo della telefonata e la sentì ridere, una risata che gli provocò una strana sensazione, un misto di curiosità e di attesa, ma attesa di che? Poi si riprese, era solo la camiciaia, anche se con la voce sensuale di Marlene Dietrich! Il colloquio prese allora l'andamento normale, concordarono un appuntamento e si salutarono. “Sono la Dina, si ricordi, non sono la signora Dina” sentì le ultime ridenti parole mentre chiudeva il telefono. La Dina! Solo la Dina, non Marlene Dietrich! Cercò, nei giorni successivi, di ricondurre quel colloquio telefonico alla realtà, una normale telefonata per fissare un appuntamento con la camiciaia. Ma il volto, gli occhi e la voce di quella Dina, non della camiciaia Dina, gli si presentavano sempre davanti, come un'ossessione, fino a quando non decise di liberarsene, andandoci. “Venga, entri pure…” la voce, quella voce, se possibile ancora più calda di quella che usciva dal telefono, lo accolse sulla porta, quando suonò. “Si, sono io, sono la Dina!” gli sorrise invitandolo ad entrare, quando vide la sua strana titubanza. Era infatti rimasto sulla soglia, quasi impietrito e senza parole: il volto, la voce…e adesso il corpo! Era uno splendido corpo, quello che gli si offriva davanti alla vista e sul quale fece scivolare lo sguardo come in una panoramica verticale: una camicetta bianca sbottonata quel tanto che bastava a fare intravedere il solco dei due seni, portata sulla nuda pelle, una cintura alta che stringeva una vita sottile e reggeva una gonna di jeans corta a coprire lo splendore di due fianchi opulenti e a scoprire fino alle cosce due gambe alte e forti… Cesare non seppe mai il tempo che trascorse sulla porta, immobile, quasi in trance: qualche secondo, un minuto, un'eternità… Fino a che essa, quasi scuotendolo, lo trascinò risolutamente dentro. Solo allora riprese conoscenza ed entrò nella realtà. Scelse la stoffa, discusse il modello e commissionò tre camicie. “Tanto per cominciare!” disse, quasi scusandosi. “Devo prenderle le misure, si liberi della giacca, per favore” e lo aiutò a sfilarsela, avvicinandoglisi. Cesare sentì allora anche il suo profumo, profumo e odore, profumo fresco e odore forte di femmina, più che di donna. Con freddezza professionale la camiciaia intanto avvolgeva il suo torace con il metro, scorrendo lentamente con le dita sulla stoffa e sulla sottostante pelle; quel movimento a lui parve volutamente lento e gli provocò dei leggeri brividi. Essa trattenne un istante la mano e gli sorrise, con il solito misterioso sorriso, poi riprese la misurazione. Infine gli chiese, infilando due dita nel colletto della camicia, “Preferisce il collo molto largo?” Egli annuì in silenzio, sopraffatto ancora dallo stordimento. Per avvolgere il collo con la fettuccia del metro, essa gli si appoggiò sulla schiena sollevandosi sulle punte con la leggerezza di una ballerina. Sentì i capezzoli della Dina quasi bucargli la carne, turgidi e puntuti com'erano. A quel punto perse completamente la testa, il suo sesso rispondeva autonomamente, da quel muscolo involontario quale era, al calore di quel petto prepotente che gli scaldava la schiena, e si faceva vivo animando i pantaloni. Arrossì imbarazzato e un leggero sudore gli coprì la fronte, mentre tentava di girare la faccia dietro, verso di lei, alle spalle. “Stia fermo, adesso mi ha fatto perdere la misura!” lo rimproverò stizzita, girandogli poi davanti per prendere nuovamente la misura del collo. Gli avvolse le braccia attorno al collo e si alzò nuovamente sulle punte, appoggiandosi al torace di Cesare come in un abbraccio. Questa volta Cesare ebbe il sospetto che essa volesse esplicitamente provocarlo e spinse il suo bacino verso quello di lei, tentando di farle sentire il rigonfio che era andato aumentando dentro i pantaloni, diventando ben avvertibile. Poi la guardò, cercando le sue reazioni: gli occhi verdi le si erano illuminati di una luce diversa, non più il verde di un mare quietamente smeraldino, ma il verde scuro di un mare tempestoso. Lo sguardo però era rimasto professionalmente imperturbabile per tutta la durata della misurazione del colletto, senza tradire una particolare emozione. Ma essa adesso non si staccava da lui, anzi sembrava prolungare a bella posta la misurazione mentre la stretta con cui circondava il suo collo a lui pareva sempre più un abbraccio forte e voluttuoso: allungandosi a leggere la misura essa aveva infatti appoggiato la sua guancia calda contro quella di lui, poi le dita delle mani avevano all'improvviso lasciato cadere la fettuccia del metro e si posavano adesso libere sul suo collo, quasi volessero accarezzarlo. Anche il bacino aderiva a quello di Cesare e, nonostante il ruvido spessore del jeans della gonna, egli avvertiva nettamente il caldo del suo pube e il rilievo del monte di Venere, su cui egli faceva adesso appoggiare il suo membro, ormai inalberato così tanto da fargli indolenzire tutto l'inguine. Anche il petto di lei ormai premeva contro il suo e a lui parve che un leggero tremito la scuotesse a quel contatto. I loro sguardi si incontrarono per qualche istante, interrogandosi. Cesare sentì che stava perdendo il controllo di se stesso ma gli fu impossibile trattenersi: iniziò a muoversi strusciando sempre più fortemente il suo membro contro tutto il bacino della donna, accarezzando i suoi seni, che sentiva farsi sempre più sodi, con tutto il suo torace; ormai anch'essa sembrava aver perso ogni controllo, rispondeva ai suoi movimenti con altrettanti movimenti e con gli occhi socchiusi e la fronte umida di un tenue velo di sudore mormorava parole senza senso, indistinti mugolii di piacere. Poi all'improvviso si staccò da lui quasi con violenza, gli occhi divennero freddi, le labbra non tremarono più, la voce tornò normale: “Scusi, ci siamo un po' distratti…” Aveva riacquistato l'atteggiamento professionale dell'inizio e lo stava salutando: “Ci vediamo fra una settimana per la prova, le telefonerò io.” Freddamente, a lui parve con una punta di odio, lo accompagnò in silenzio alla porta e chiuse, senza neppure rivolgergli uno sguardo. Inebetito, ancora sconvolto dalla tempesta che il contatto con il corpo di lei gli aveva scatenato nei sensi, Cesare si avviò come un sonnambulo verso l'auto. Seduto, con le mani sul volante, sentiva la testa ronzargli, il cuore gli sembrava salito in gola, tutti i muscoli dell'inguine erano tesi e gli procuravano un intenso dolore su tutto il basso ventre, i testicoli sembravano scoppiargli per la tensione…. Passarono alcuni minuti prima che potesse riaversi, ma si rese conto che forse non avrebbe potuto farlo tanto facilmente. Come un'ossessione, la figura di lei, il magnetismo di quegli occhi verdi così enigmatici, il caldo di quel corpo, il suo odore, tutta lei si erano impossessati della sua mente, l'avevano occupata, ed egli non si sentiva più in grado di controllare la sua volontà. “Ma è solo una donna, una come tante, bella e sensuale, ma come tante altre!” reagiva a quel tormento. Ma non era come le altre, gli aveva marcato l'anima e i sensi indelebilmente! I giorni che vennero li visse in spasmodica attesa: la sua mente era rivolta a lei, sempre a lei; qualsiasi cosa facesse, qualsiasi cosa tentasse di pensare lo vedevano sempre soccombere di fronte all'immagine di lei che gli compariva nella mente all'improvviso e quell'immagine gli provocava fiotti di desiderio che dalla mente, contro anche la sua volontà che voleva resistere, scendevano lungo la schiena fino al suo sesso, che si irrigidiva procurandogli una dolorosa voglia, voglia di quel morbido monte di Venere che lo aveva accolto, di quei seni sodi come marmo… Aspettava la sua voce nel telefono, ogni squillo lo faceva sussultare, viveva in tempo e uno spazio sospesi… Finché, dopo uno squillo, un sussurro “Sono la Dina, può venire domattina?” La voce era quella attesa, ma il tono era così caldo e sensuale che lo stordì e gli rimescolò il sangue nelle vene. Anche questa volta s'impietrì sulla soglia della porta: lei gli stava davanti maestosa, i rossi capelli, liberi e non più trattenuti sulla nuca, circondavano il volto e controluce sembravano un tramonto fiammeggiante, gli occhi, verdissimi, emergevano dal volto e sorridevano con la solita magica aria. Entrò, poi, scuotendosi da quello stato di trance in cui era precipitato, e strinse la mano che essa gli porgeva; il contatto con quella mano, una mano forte ma delicata allo stesso tempo, gli provocò un piccolo brivido. Essa dovette forse accorgersene, perché lo guardò con curiosità e le labbra sembrarono stringersi nervosamente. Gli porse, senza parole, la camicia pronta per la prova. Goffamente Cesare se la appoggiò sul petto, misurando la larghezza delle spalle. “Ma che fa! Deve indossarla!” rise lei togliendogli la giacca “Si tolga tutto e la indossi…” Lo aiutò a slacciarsi i bottoni della camicia che portava e gliela sfilò, liberandolo, con gesti sicuri e professionali, dall'imbarazzo che sembrava avergli bloccato i movimenti delle mani. Rise ancora, una risata che a lui parve una provocazione “Ma non si è mai fatto camicie su misura?” Non ebbe il tempo di rispondere, essa lo guardava con occhi ancora diversi, il verde si era fatto intenso, più brillante e a lui parve che guizzi di una luce nuova lo illuminassero a tratti. Gli si era avvicinata ancora di più, adesso poteva sentire il suo profumo, vedeva i rilievi dei seni sotto la stoffa tesa della camicetta quasi fossero scoperti, nudi, e scopriva il loro ansimare sempre più affannato. “Che bel torace ha! Sembra una statua antica!” esclamò lei, sfiorandolo leggermente (ancora brividi gli corsero per tutto il corpo, provocandogli una scossa elettrica che dal cervello giunse fino all'inguine, animandolo violentemente…) “Beh, anche lei, almeno a giudicare da quel che si vede da fuori…” la frase gli era sfuggita inconsapevolmente, non comandata dalla mente ma dai sensi, ma gli occhi dicevano assai di più. Dina non rispose, fissò i suoi occhi in quelli di lui, come volesse ipnotizzarlo, poi iniziò a sbottonarsi la camicetta, lentamente, sempre guardandolo, senza una parola, finché non scoprì completamente l'intero petto. Egli era infatti ipnotizzato da quella visione e non riusciva a parlare, ma anch'essa continuava a non parlare, solo un leggero tremito delle labbra e il turgore dei capezzoli denunciavano la sua eccitazione. Gli si avvicinò di scatto, accostando al suo petto quelle mammelle ormai fatte pietra dall'eccitazione: con i capezzoli iniziò a percorrere il petto di lui come se volesse levigarlo, finché incontrò, di lui, i capezzoli e vi premette contro i suoi, quasi volesse fonderli insieme. Cesare adesso volava, la sua volontà lo aveva abbandonato e adesso, incontrollata, lo portava a desiderare prepotentemente quella donna… La strinse forte fra le braccia facendo aderire il suo bacino a quello di lei e facendole sentire il desiderio che si era impadronito del suo membro rendendolo duro e saldo. Essa lo aveva sentito e il suo ansimare si era fatto ancora più forte: aveva socchiuso gli occhi e si era abbandonata a quella stretta, mentre la sua bocca cercava quella di lui e la lingua, infuocata, si insinuava a forza fra le sue labbra. Si baciarono per un tempo infinito, persi entrambi. Le mani di lui lasciarono la stretta dell'abbraccio e scesero verso le natiche della Dina, le palparono furiosamente saggiandone le sode rotondità e percorsero il solco che le divideva; adesso era lei ad essere battuta da fremiti incontrollati, mentre Cesare, slacciata la cintura che la reggeva, le faceva scorrere a terra la gonna e le sfilava il minuscolo slip che, ultimo sipario alla sua nudità, finì anch'esso a terra lasciandola totalmente scoperta alla sua vista. Fremette, Cesare, e quasi sentì mancargli le forze dallo stordimento in cui la improvvisa visione del corpo nudo di lei lo aveva precipitato. Poi prese ad accarezzarla e baciarla, percorrendo tutto il velluto di quel suo corpo con le labbra, la lingua, i polpastrelli delle mani, in un'estasi totale. Poi cadde in ginocchio davanti a lei, fissando lo sguardo sulla folta peluria fiammante della vulva, che gli apparve come un fuoco improvviso fra il velluto rosato delle cosce; la bocca scese dal ventre per esplorare quel bosco infuocato e la lingua vi si insinuò, frugando fra i cespugli ricciuti e assaporandone il profumo. Scese ancora e penetrò nel caldo umido della vagina. Lei sussultò e gemé a quel contatto divaricando le gambe per permettergli un migliore accesso ed egli la sentì allora fremere con tutto il corpo, a mano a mano che si addentrava con la lingua in quel meandro ormai in fiamme. Ancora un sussulto, poi essa sollevò una gamba e la appoggiò sulla spalla di lui, allargandosi tutta alla esplorazione. Cesare affondò tutto il viso in quel triangolo che lo dominava adesso dall'alto: aveva davanti a se' il piccolo organo di piacere di lei, lo strinse fra le labbra e lo succhiò avidamente, incapace di frenare lo slancio parossistico che quella visione gli aveva suscitato. Essa gridò per quella nuova sensazione e piegò le ginocchia, vinta dall'improvvisa ondata di piacere violento. Poi si riprese e si abbandonò lentamente a quelle labbra che adesso, allentata la stretta, suggevano delicatamente quel suo piccolo fallo femminile. Un mugolìo soffocato, quasi un rantolo, usciva dalle sue labbra, quando le labbra di lui si aprivano e la lingua accarezzava con dolcezza prima il clitoride poi tutto l'interno della sua infuocata natura. Poi, improvviso, un grido di gioia, quasi di liberazione, la scosse salendo dal più profondo del suo intimo e l'umore caldo e odoroso colò giù… Cesare ne fu bagnato e anch'egli gridò per la gioia di lei: frasi sconnesse, parole mozze, suoni inarticolati uscivano dalla sua bocca come in delirio. “Ecco, sei giunta! Passera meravigliosa…” riuscì infine ad articolare… Non una parola era corsa fra loro fino a quel momento e quella frase ruppe il loro silenzio. Gli occhi trasognati e lucidi della Dina tornarono verdi e smeraldini come sempre, perdendo quei lampi dorati che li avevano marcati nel momento del piacere più intenso e la voce risuonò, calda ma imperiosa, mentre sollevava il viso di Cesare umido e gocciolante per un rivolo che gli correva lungo la fronte: “Alzati, hai goduto della mia passera, adesso voglio godere io del tuo uccello!” gli intimò lei con prepotenza. Come un automa, a comando, egli si alzò e sentì le mani di lei che febbrilmente, con sapienza, lo liberavano dell'impaccio dei pantaloni e dello slip. Sentì il freddo dell'aria sul suo membro libero e svettante e vide gli occhi di lei che vi si posavano e lo osservavano con fredda curiosità. “Ti presenti con quell'affare così piccolo? Io ho bisogno di altre misure, sono abituata a ben altre dimensioni!” La voce era divenuta adesso fredda e chirurgica e Cesare si sentì colpito e smontato da quel tono che gli parve inquisitorio ma soprattutto ironico. “Provalo, almeno, poi mi dirai cosa ne pensi!” riuscì solo a dire, nervoso. “Allora cercherò di farlo crescere, sono una maga per queste cose!” strizzandogli l'occhio e afferrandogli il membro che, offeso, se ne stava ormai pendulo fra le gambe del proprietario, come un cane bastonato. Una breve ma intensa manipolazione, poi, inginocchiatasi, lo ingoiò tutto, con una delicatezza che fece spasimare Cesare, che vacillò sentendo svuotarsi la spina dorsale, come risucchiata dalle labbra e dalla lingua di lei. “Fermati, adesso! Lo voglio dentro di me!” gridò Dina all'improvviso, bloccandogli l'eiaculazione che aveva intuito, sentendo il suo corpo vibrare verso lo spasimo finale. Si unirono con frenesia, lì sul divano, lui gemendo e lacrimando dal piacere, lei incitandolo con grida strozzate “Di più, ancora di più!” e incalzandolo con i movimenti del bacino, venendogli incontro quando egli affondava dentro di lei, per aumentare la profondità della penetrazione. Cesare era spossato, reso ubriaco dalla insaziabilità di lei, che si ritirava, sfuggendogli, quando avvertiva il sopraggiungere dell'orgasmo, per poi riprenderlo con violenza dentro di sé prima che perdesse vigore. Non furono in grado di fermare il tempo, che passò sopra di loro inavvertito; solo quando, esausti e senza fiato, si slacciarono, solo allora si resero conto dell'eternità consumata. Stettero accanto, uno a fianco dell'altra, ancora per un tempo infinito, respirando dapprima con affanno, poi sempre più quietamente, finché non ebbero raggiunto la pace dei sensi e si furono rimpossessati delle loro menti. “Non sono una ninfomane! Mi piacciono gli uomini, ecco tutto! Ma soprattutto mi piace l'uccello, l'uccello grosso e potente, al quale non so resistere. Anche solo quello, non importa di quale uomo!” Così essa infranse il silenzio, con questa confessione spontanea, come se volesse giustificarsi con lui. Ma non ne aveva bisogno, a lui andava bene così e non chiedeva altro, adesso che l'aveva avuta, non chiedeva che di continuare ad averla ancora, domani e poi domani, per sempre, fino alla morte. Questo le disse, ma non trovò risposta. Freddamente (come la prima volta!) Dina lo rivestì (egli era incapace di farlo, annichilito) e lo accompagnò alla porta, con un formale saluto come fra due che si erano appena conosciuti. Ma egli da quel giorno non visse più una vita normale, era lei che continuamente invadeva la sua mente e nel pensarla tutti i suoi sensi si annullavano e subentrava in lui solo uno devastante desiderio fisico; un desiderio che cresceva prepotentemente in pochi secondi e si impossessava ancora del suo corpo in modo violento, fino a scaricarsi nei genitali, fino a procuragli fitte di voglia sessuale acute e dolorose alle quali non riusciva a trovare sfogo. Ma neppure in Livia, l'antica amante alla quale era tornato anche con la speranza di liberarsi di quell'ossessione, aveva trovato la quiete. Era la Dina, solo la Dina, che gli aveva avvelenato i sensi entrandogli nel sangue e solo in lei sapeva ormai di doversi annullare, per sopravvivere. Viveva nell'attesa di lei, sperava in un segnale, in un richiamo… Un Poney-express gli recapitò un pacco: conteneva le tre camicie confezionate, con un biglietto che egli aprì e lesse con impazienza: il conto… Allora decise, avrebbe telefonato. “Devo ordinare ancora tre camicie, quelle che mi ha fatto sono perfette, ne vorrei ancora” “Va bene, ho già le misure, gliele preparo…” Ma era la sua voce? Così fredda e impersonale? Insisté: “Ma devo scegliere la stoffa! Posso venire domani?” Quasi implorava e si odiò per questo. La sentì rassegnata, annoiata “Venga domani.” Poi il clic che chiuse la conversazione. Il domani non arrivava mai, la notte fu tutto un susseguirsi di sogni erotici e polluzioni: la Dina era accanto a lui, lo accarezzava, lo masturbava, lui tentava in continuazione di prenderla e lei gli sfuggiva…poi gli incubi: “E' piccolo! E' piccolo!” la voce irosa di lei lo perseguitava…lui si guardava fra le gambe e non vedeva nulla, tutto piatto… Si svegliò bruscamente, la mattina, bagnato di sudore e sperma: si guardò fra le gambe e respirò di sollievo: qualcosa c'era e alla Dina poteva bastare, come già le era bastato! La doccia fredda lo rinfrancò definitivamente e quando suonò alla porta di lei era sereno ed euforico. Lo accolse cordialmente e questo aumentò la sua euforia, al punto che poté guardarla senza emozionarsi particolarmente. Notò il diverso abbigliamento con cui questa volta si presentava: una lunga, morbida e frusciante gonna di colorata seta indiana, una castigata maglietta accollata e niente affatto aderente, poco trucco sul viso, i capelli tirati sulla nuca e riuniti in una crocchia…ma gli occhi! Gli occhi erano sempre brillanti, verdi e profondi, e lo riscaldarono, anche se gli parve che lo guardassero con fredda indifferenza. Discussero sul campionario delle stoffe, essa gli descriveva la qualità, gli accostava i colori al petto, davanti allo specchio, per fargli osservare l'effetto. Nel fare questo lo andava via via sfiorando e Cesare veniva punto da tante piccole scosse elettriche ogni volta che veniva sfiorato. La sua temperatura iniziò a salire vertiginosamente, era una vera e propria febbre quella che gli colorava di rosso il volto e gli bruciava tutto il basso ventre. Il solito profumo-odore, ancora quello, finì per stordirlo. La vide china davanti a sé a riporre le stoffe, il suo sguardo fu calamitato dalle magnifiche rotondità delle natiche che la leggerezza della gonna di seta esaltava anziché velare e fu travolto dal desiderio. La afferrò ai fianchi costringendola ancora chinata davanti a sé, le sollevò la gonna scoprendola e appoggiò con forza il bacino nel solco fra le due cosce scostando il filo dello slip che vi si insinuava. L'improvvisa e violenta azione non le permise di reagire subito. Gridò e tentò di sollevarsi “No, non voglio, non mi interessi più!” Ma intanto aveva sentito il caldo bruciante del suo membro che, liberato dalla costrizione dei pantaloni e dello slip, si faceva largo fra le grandi labbra. Non seppe resistere, mugolò di piacere e lasciò che egli la riempisse di sé, mentre le mani di lui, abbandonati i fianchi di lei ormai vinti, risalivano il suo corpo insinuandosi dentro la sciolta maglietta, andando a impossessarsi dei seni nudi per stringerli, facendola gridare, un po' per il piacere, un po' per il dolore. L'orgasmo li raggiunse insieme e insieme gridarono, rimanendo ancora allacciati per qualche minuto, lui affievolendosi lentamente dentro di lei, lei china con le mani appoggiate sulla scaffale non volendo ancora liberarsi di quel legame che li univa fisicamente. Poi, improvvisamente, si ribellò con violenza e lo cacciò via da sé: “Non ti volevo, non fai per me! Ma quando sento un uccello non so resistere, anche se non è quello giusto per me! E tu ne hai approfittato!” Lo guardò con astio e lo spinse lontano “Ma adesso vattene, vattene via! Ti odio!” Inebetito, Cesare si lasciò spingere fuori della porta, senza resistere e senza parlare… Solo fuori, per strada, si rese conto di essere stato rifiutato: ira, disperazione, frustrazione riempirono la sua mente fino ad annientarla. Ormai era un automa che si muoveva meccanicamente, annientato nella volontà. Per giorni cercò di allontanare da sé quella ossessione, pagò prostitute, cercò avventure nei più sordidi bar di periferia… Non voleva tornare da Livia, che avrebbe certamente intuito quel suo tormento. Invece tornò ancora, da lei, lo aveva cercato disperatamente ed egli cedette alle sue invocazioni e ai suoi ricatti: “Se non vieni da me farò in modo che Aldo cominci a sospettare della tua amicizia!” Non andò però da lei, si incontrarono in un albergo fuori città e questo rese ancora più squallido e deprimente l'incontro. Non riuscì a soddisfarla: per la prima volta, nonostante tutte le arti seduttive e amatorie messe in atto da Livia, il suo sesso non rispose alle sollecitazioni. “Perché questo? Non mi vuoi più?” lo osservava sorpresa, mentre lui, confuso e sudato, cercava disperatamente di eccitarsi. “Ho capito, sei stanco di me, hai un'altra donna” gli disse gelidamente rivestendosi. Allora Cesare pianse: un pianto sommesso, ma liberatorio, che la stupì dapprima, poi la commosse. Le raccontò tutto, cercò di farle capire la soggezione totale in cui la camiciaia lo aveva ridotto: “Mi avvelenato la mente e i sensi, mi è entrata sottilmente dentro come un cancro; senza di lei neppure riesco a respirare, spesso…Ho provato in tutti i modi di liberarmi del suo fantasma, ho persino pensato di andare dallo psicoanalista!” Fu generosa, Livia, nel consolarlo: non gli fece pesare il tradimento e scherzò: “Non dallo psicologo devi andare, ma dal sessuologo!” Poi improvvisamente aggiunse: “Devo capire se questa tua camiciaia è più puttana o più affarista!” E a lui che la guardava interrogativamente spiegò: “Devo capire se usa la fica per guadagnarsi la clientela o se fa la camiciaia per continuare a soddisfare le voglie della fica!” Poi il consiglio finale “Se proprio non riuscirai a farne a meno, la prossima volta maltrattala, prendila con violenza, falle male, disgustala insomma! Forse la sua reazione ti farà bene.” Ancora una volta una ordinazione di tre camicie con la necessaria scelta delle stoffe fu l'alibi galeotto. Si presentò spavaldo, quasi strafottente, senza preavviso, e a lei che lo accolse con stupore si rivolse bruscamente “Ho bisogno urgente ancora di tre camicie, devo partire per un viaggio.” La vide sorpresa e gli sembrò un buon segno, quindi si addolcì, nello sguardo e nella voce. Indossava una semplice vestaglietta corta che a lui parve gettata frettolosamente addosso, i capelli sciolti e scomposti le coprivano in parte il volto… Era ancora più bella, questa volta, e ancora più provocante: una luce calda le illuminava il verde degli occhi, il viso era un'esplosione di sensualità, tutta la persona era un'esplosione di sensualità. Cesare si arrese ancora una volta a quel magnetismo sensuale e l'abbracciò con foga… “Cosa fa, signore…” essa lo respinse con forza e gli parlò con durezza “ Non l'aspettavo, oggi: ma ormai lei è qui…Dobbiamo scegliere la stoffa e il modello, ma facciamo in fretta, ho altre cose da fare!” Egli fu sorpreso dal suo atteggiamento, ma il desiderio di lei era così forte che gli fece superare anche la sorpresa “Si, scegliamo stoffe e modelli…Ma io ho bisogno di te, non hai capito? Ho bisogno delle camicie, ma ho assai più bisogno di te!” La implorava, degradandosi senza dignità: in ginocchio davanti a lei, con il volto affondato fra i lembi della vestaglia semiaperta, quasi singhiozzava nel gridarle il suo desiderio, aspettava un segnale, il segnale che anch'essa lo desiderava… “Dina, allora…Cosa fai?” Una voce maschile irruppe da un'altra stanza: Cesare, levatosi in piedi, impietrì per quell'improvvisa intrusione, la Dina avvampò in volto e gli rivolse uno sguardo pieno d'odio “Perché lei è venuto oggi, senza appuntamento?” “Hai un uomo, di là!” urlò Cesare afferrandola per le spalle e strattonandola così forte da farle scivolare di dosso la vestaglia e scoprendo così la sua totale nudità. “Si, ho un uomo! E con questo?” Con un gesto nervoso si avvolse di nuovo nella vestaglia “Ho un uomo con il quale stavo facendo l'amore, come avrà capito!” L'aveva capito, e la rabbia della gelosia lo assalì, violenta…Tentò di afferrarla ancora, essa lo respinse e levò un braccio contro il suo viso… Ricevette lo schiaffo, ma il dolore lo colpì dentro, nell'animo, non sul viso… “Se ne vada adesso, mi lasci in pace!” gli intimò poi lei, spingendolo fuori della porta “Le manderò queste nuove tre camicie appena pronte…” Egli non reagì, ormai svuotato di ogni energia: la rabbia si era tramutata in apatica indifferenza. Riprese coscienza solo infondo alle scale, quando sentì lo scatto della serratura che fermava la porta. L'indifferenza che l'aveva colto dopo lo schiaffo lo portò a pensare lucidamente a quella sua disperata situazione: doveva a tutti i costi liberarsi di quella oppressione che gli schiacciava la vita, doveva cancellare la Dina dalla sua mente, ma soprattutto dai suoi sensi, dove si era annidata quasi fosse una parte di lui. Decise allora una vacanza, una vacanza in un luogo lontano, dove la distanza potesse annullare l'incorporea presenza di lei fino ad annullarla. Andò in compagnia di una ragazza affittata per l'occasione, una bella e cortese accompagnatrice che fece di tutto per rendergli la vacanza piacevole, soprattutto spensierata, non inseguita dalla memoria. E così fu, infatti. Non pensò a niente, per tutto quel periodo: il lavoro, Livia…niente più esisteva, c'era solo lui e la bella ragazza che l'accompagnava. Al ritorno si sentì nuovo, sgombro da ogni ricordo spiacevole, pronto ad una nuova vita. Passarono così alcuni giorni di questa sua nuova, tranquilla vita. Finché giunse un pacco, un pacco senza indicazione del mittente: tre camicie, con una fattura,“ Dina, camicie di lusso, su misura. Solo per appuntamento”… Come in un improvviso temporale d'estate, un tuono squarciò la sua mente, tutto ritornò indietro come se il tempo non fosse trascorso e la Dina riprese di prepotenza possesso della sua mente e dei suoi sensi. Tutti gli antichi desideri si risvegliarono e presero di nuovo a tormentarlo. Tentò di resistere al tarlo che gli rodeva dentro, ma non ci riuscì: il telefono era là, sembrava aspettarlo impaziente… Rispose lei, la solita voce da Marlene Dietrich che lo fece quasi svenire. Ma anche essa lo aveva riconosciuto: “Ah, è lei? Ha ancora bisogno di camicie?” Il tono era ironico, ma la gioia di sentire la sua voce, il calore che gli dava al cuore, impedirono a lui di accorgersene. “Si, ho bisogno ancora di tre camicie” rispose eccitato “ tre camicie eleganti, una delle quali da sera, di seta, dovrà essere bellissima!” Aveva improvvisato ed essa lo comprese: “Certamente, gliele preparerò, non importa che si disturbi a passare da me per scegliere la stoffa, ormai conosco i suoi gusti e penserò io. Gliele invierò appena pronte.” Troncò la conversazione, lasciandolo insoddisfatto, tentato di richiamarla per sentire ancora al sua voce. Ma non ne ebbe il coraggio. Ancora giorni ansiosi trascorsero, sempre consumati nel desiderio di lei. Doveva vederla, incontrarla ancora una volta, sentire ancora il profumo del suo corpo, stringerla a sé… Telefonò ancora, non poteva aspettare oltre perché l'attesa di lei lo stava distruggendo nel corpo e nello spirito: gli rispose che le tre camicie erano pronte e che stava per inviarle. “No, non le spedisca, passo io a prenderle!” Corse subito e trovò, pronte, distese sul banco, le sue tre camicie. Fra le tre, c'era la camicia da sera, elegante, di seta, con bottoni di madreperla e una plissettatura sul davanti…bellissima, come aveva chiesto. “Questa voglio provarla!” gridò Cesare, rosso per l'eccitazione, afferrandola e preparandosi a misurarla. Essa non obbiettò, anzi osservava con occhi stranamente attenti mentre egli la indossava. La camicia di seta, il suo capolavoro! Questo le leggeva negli occhi. Una seta finissima, leggera e morbida, d'un tenue color grigio perla, che copriva il busto di Cesare modellandone le forme come se gliela avesse cucita addosso… Dina la guardava, ammirata dalla perfezione del taglio, e prese a scorrere con le dita fra le pieghe della plissettatura, saggiando con leggeri tocchi dei polpastrelli, ali di farfalla, i muscoli che risaltavano sotto come fossero scoperti. Cesare vedeva i suoi occhi farsi lucidi, illuminati dalla solita febbre di desiderio sensuale. Credette di capire che poteva ancora una volta osare: essa sembrava ormai indifesa, pronta a cedere… La strinse alla vita e la attirò a sé, baciandola con una furiosa passione a cui essa reagì partecipando altrettanto furiosamente. Si lasciò poi spogliare con gioia, accompagnando maliziosamente con gesti provocanti ogni indumento che egli le toglieva, facendolo volare per l'aria ai quattro angoli della stanza. “Grazie, amore! Sei bellissima! E finalmente ti sento completamente mia. Grazie!” Cesare era estasiato, per la prima volta la sentiva sottomessa e lieta di esserlo. E questo lo faceva sentire nell'empireo! La guidò verso la camera che aveva intravisto altre volte ma di cui non aveva mai varcato la soglia, pur avendolo sempre sperato. La distese sul letto e la ammirò in silenzio, mentre essa si apriva tutta al suo sguardo. Poi si spogliò anch'egli, con disordinata impazienza. Persino la camicia di seta fu gettata in un angolo del letto, a spiegazzarsi tutta. S'inginocchiò a fianco del letto, accanto a lei, e prese a baciarla su tutto il corpo, resistendo al desiderio che gli cresceva dentro e che gli gridava di prenderla subito. Anche essa sembrava assecondarlo in questo voler diluire nel tempo e nell'attesa il piacere desiderato: riceveva fremendo i suoi baci sulla pelle, assaporandoli lentamente, quasi volesse incorporarli. Al culmine dell'eccitazione, con le vene che parevano dovergli scoppiare per il sangue che bolliva dentro e scendeva a inturgidirgli violentemente il pene fino a procuragli un doloroso tormento, egli non fu più capace di attendere. Anche Dina sembrava pronta: gli occhi verdi le brillavano e nel fondo lampeggiava una luce di passione, il corpo vibrava sempre più incontrollato… Erano entrambi in spasmodica attesa dell'incontro dei loro sessi. Fu allora che egli si distese sul suo corpo e entrò in lei, che lo ricevette con un grido strozzato di gioia. La simbiosi si stava compiendo, i loro corpi si mossero all'unisono, con una frenesia che dava sfogo al desiderio. Improvvisamente essa sembrò bloccarsi, il suo corpo non rispose più ai colpi di Cesare che disperatamente cercava di riaccendere la sua passione frugandole dentro con tutto il calore del pene ingigantito al massimo dalla eccitazione. Essa invece sembrava ora completamente inerte, assente, lo sguardo vuoto e lontano… “Perché, perché questo?” le chiese implorando. Solo allora essa sembrò svegliarsi dal torpore, e lo scosse gridandogli: “E' piccolo e corto il tuo uccello, non mi riempie! Esci!” e rise, schernendolo con una smorfia, mentre cercava di sfilarsi da sotto di lui “No, non dire questo, mi fa male!” gemette lui, spingendo ancora allo spasimo il bacino per riempirla di più, per farle sentire quello che essa diceva di non sentire… Ma lei, sempre più irosa, continuava a divincolarglisi sotto “Esci, ti ho detto, non sento niente! Non hai niente per me fra le gambe!” girò il volto per non vederlo, e gli urlò “Non ti voglio, vattene!” Una furia improvviso lo colse allora, una vampata feroce di odio si impossessò della sua mente, che si ottenebrò: la colpì con un violento schiaffo, costringendola a guardarlo. Lesse nei suoi occhi, che vide freddi e distanti, noia e disprezzo. Urlò anch'egli, adesso, con un grido che gli era salito dal basso ventre e gli era esploso in gola: “Noo! Non così! Non l'indifferenza!” Come un automa guidato dall'irrazionale, tolse le mani dai seni che stava accarezzando nell'ebbrezza del possesso e salì, cercandole il collo, sul quale si posò con la stretta delle dita. Essa sussultò, con un brivido che egli non comprese se di piacere o di terrore, ma non cessò di divincolarsi, cercando ancora di sfuggirgli. Le mani di Cesare tremavano nello sforzo di serrare quel collo che gli si opponeva; volevano stringere disperatamente ma non riuscivano… “La camicia di seta, ecco!” nella follia lucidamente ragionò. La camicia era sul letto, accanto a loro; l'afferrò, l'avvolse attorno al collo di lei che lo guardava stupita e incredula, incapace di reagire, e strinse. Strinse e strinse, fino a gridare. Gli occhi della Dina si stavano a poco a poco riempiendo di lacrime, le labbra le tremavano tentando di emettere suoni che però non uscivano dalla bocca. Il corpo non si agitava più, distendendosi quietamente sotto quello di lui. Poi la sua vagina si fece sempre più rigida, stringendo in una morsa quel cilindro di carne ancora caldo e voglioso che aveva dentro. Cesare avvertiva adesso che essa stava allontanandosi. Sentiva il calore abbandonare lentamente, a poco a poco, la Dina che aveva sotto di se'… “E' finita” pensò meccanicamente, già lontano da tutto, senza più volontà. La sua tormentata stagione di follia dei sensi era durata un dozzina di camicie, solo una dozzina di camicie e niente di più! Uscì da quel corpo divenuto ormai fredda statua. Si distese accanto e attese, inanimato. Qualcuno sarebbe giunto.
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